Le storie di Siena e dei senesi nella rubrica di Arianna Falchi

Oggi il nostro filo si emoziona nel raccontare la storia di Giuseppe Silvestri.

Un tumore di cinque centimetri non ha fermato il giornalista ascolano

che ha portato nel cuore il sestiere di Porta Solestà e anche la sua Siena, dove tutto ha avuto inizio.

In questo mestiere (quello del filo, s’intende!), a volte ci si trova di fronte a storie più grandi di noi. Storie talmente vere, vive, travolgenti, che il sol pensiero di raccontarle provoca un certo timore, una lieve paura di poterle sporcare o di non riuscire a narrarle nel migliore dei modi. Perché senza dubbio, siamo i migliori narratori di noi stessi. Quindi, stavolta il filo tace. Poche domande, perché questo filo si ritrova ad ascoltare la storia di qualcuno che le ha insegnato tanto e che ancora, concedendole una lunga telefonata, continua a trasmetterle il valore delle parole. Oggi parliamo di Giuseppe Silvestri, giornalista ascolano ma che ha vissuto e girato il centro Italia in lungo e in largo, trovando sulla sua strada anche la nostra città, al Corriere di Siena. Dopo, una volta ripreso il largo nel burrascoso mare della cronaca e delle notizie, Siena ha continuato a contare qualcosa nella vita di Giuseppe e lo ha fatto con una delle sue eccellenze in campo medico: la Lilt, guidata da Gaia Tancredi. In questo spazio useremo parole chiare: tumore, neurochirurgia, operazione al cervello, amnesia, paura, ma anche rinascita, coraggio, forza. Perché è questo che è successo, all’improvviso: un meningioma che ha sconvolto la sua vita, dando inizio ad un percorso difficile ma dal quale Giuseppe (che mi perdonerà se gli dò del tu), ha saputo trarre il buono ed il bello… Seguendo il suo filo di Arianna.

L’inizio

“Ero in fase di esaurimento totale. Da tre mesi avevo queste sensazioni strane, giramenti di testa sopratutto quando mi alzavo o mi muovevo nel letto. Non avevo i sintomi ‘chiave’ come il blocco di un arto o la perdita della vista, quindi era difficile pensare al tumore, anche se avevo intuito che qualcosa non stava andando. Inizialmente, però, ho dato la colpa allo stress e al duro periodo che mi ero appena lasciato alle spalle: ho passato tutta l’emergenza Covid con la guardia altissima, tanto che spesso ho dovuto discutere con chi avevo intorno. Facendo il giornalista e raccontando storie di morti, familiari persi, avevo la prova tangibile di quanto fosse drammatica la situazione. Ho vissuto in maniera esasperante ed esasperata, in condizioni di difficoltà anche perché la mia compagna ha genitori anziani e mia madre, con il resto della mia famiglia, è ad Ascoli. Vi era tensione interna, perché mi davano dell’esagerato e a volte, sono sincero, lo pensavo anche io. Giustificavo i miei malesseri con questo, in più fin da bambino soffro di emicrania con aura”.

Per Giuseppe, il campanello d’allarme suona in una normale mattina di primavera, appena sveglio, al fianco dell’amata compagna Francesca.

“Ho aperto gli occhi e non ricordavo i nomi dei miei familiari. Mia madre, mio padre che non c’è più… vuoto totale. La mia compagna ha mantenuto la calma e mi ha proposto di andare in ospedale. L’amnesia è durata circa venti minuti: avevo già fatto delle analisi di base nei giorni precedenti, quindi ho preferito evitare di recarmi al pronto soccorso: ciò che mi è venuto in mente, invece, è stata la Lilt di Siena ed il rapporto di amicizia e stima che mi lega con Gaia Tancredi. L’ho chiamata ed ho chiesto consiglio su cosa fare, lei mi ha suggerito una visita immediata dal neurologo. Mi ha fissato una visita con il dottor Riccardo Mazzocchio, un professionista che ama il suo lavoro e che mi ha visitato il pomeriggio stesso”.

Sono due i fili da seguire per capire al meglio la storia di Giuseppe: il primo si snoda nel suo vissuto, ne narra le vicende più intime, la battaglia personale. L’altro, si ritrova a raccontare una serie di meravigliose personalità del mondo della medicina, di professionisti unici ed incredibilmente umani, di persone che curano gli altri come missione, più che per lavoro. Si parte proprio da Siena, dalla Lega Italiana per la lotta contro i tumori, da Gaia Tancredi e dalla velocità di pensiero e d’azione.

“Il neurologo mi ha visitato e prescritto una serie di esami da fare. Sia Gaia che la Lilt hanno mostrato grande lucidità. In 48 ore, ho avuto la risonanza magnetica all’ospedale di Campostaggia, dove ho incontrato nuovamente una professionista che mi ha lasciato di stucco: la dottoressa Rosamaria Servillo. Il primo giugno, entro nel macchinario della risonanza. Già lì ho avuto la sensazione che qualcosa non andasse, perché l’esame stava durando più del dovuto. Quando la dottoressa mi ha tirato fuori dal tubo, ho apprezzato la gentile schiettezza, qualità che amo molto nelle persone. Mi ha detto subito di aver visto un meningioma e che, per evitare di rimandarmi a casa, prenotare un secondo esame e perdere tempo, voleva il mio consenso per effettuare la risonanza con mezzo di contrasto, così da avere subito immagini e referto. Per me ovviamente è stato uno shock, ma ho accettato immediatamente”.

Coraggio. Un coraggio immenso quello che ha tirato fuori Giuseppe Silvestri, giornalista dalla penna svelta e dall’animo indomito. Pochi minuti e via, ancora dentro al macchinario. “Ho iniziato a soffrire come un cane. Mentre ero lì, però, ho pensato che questa dottoressa fosse stata bravissima: mi dispiace di non essere ancora riuscito a trovarla sui social. Alla fine, uscito nuovamente, mi ha confermato ciò che aveva già visto. Un tumore di cinque centimetri, benigno, che premeva sul cervello”.

Un colpo che toglie il fiato, un senso di vuoto, una notizia che spaventa e che disorienta. Fuori, da almeno due ore, la compagna lo stava aspettando. “Francesca mi aveva accompagnato in macchina. Come sono uscito dal piano inferiore dell’ospedale ed ho ritrovato segnale nel telefono, l’ho chiamata, distrutto. Sono andato dritto al sodo e le ho detto che avevano individuato un tumore. Ho faticato a trovarla, poi ci siamo abbracciati ed abbiamo pianto. Quando siamo tornati in macchina abbiamo letto il referto e anche lì veniva consigliata una visita neurochirurgica”.

Giuseppe è del segno della vergine: un tratto caratteristico è quello della praticità, del pragmatismo. In quella testa presa d’assalto dal tumore, si è accesa una lampadina: “Mi sono fermato un attimo e mi è venuto in mente lui: Sandro Carletti. Lo avevo conosciuto professionalmente come primario di neurochirurgia a Terni intervistandolo quando lavoravo lì. Sapevo che aveva lasciato la città umbra, dimettendosi da primario e trasferendosi nella clinica privata Ifca Casa di cura Ulivella e Glicini a Firenze, dove nel 2018 è stato aperto il reparto di neurochirurgia che lui dirige. Il secondo nome che mi è venuto in mente è quello di Alfredo Doni, caporedattore del gruppo Corriere a cui sono profondamente legato da una grande amicizia. Lui conosce il professor Carletti più direttamente, quindi l’ho subito chiamato. ‘Alfredo, ho un tumore alla testa‘. Sì, ho sparato a zero, era inutile girarci intorno ed io sono così. A volte sono stato criticato per questo mio parlare del tumore in maniera diretta, qualcuno sostiene che voglia dirlo a tutti i costi. La verità è che faccio il giornalista, nella mia vita ho raccontato tanti drammi, tra cui tre terremoti e sono abituato a chiamare le cose con il loro nome. Alfredo è stato rapido nella risposta: ‘Carletti tutta la vita’. Dopo pochi minuti da questa telefonata, Doni mi ha scritto dicendomi di mandargli il referto su whatsapp. Ancora una manciata di minuti ed ho avuto l’ennesima dimostrazione di umanità e passione, perché è stato lo stesso Carletti a chiamarmi. Ci siamo visti due giorni dopo a Perugia nel suo studio. Arrivato lì, mi ha spiegato le valutazioni del caso e ha detto che mi avrebbe operato subito il lunedì successivo, a Firenze. Nonostante fossi contento di poter fare il prima possibile, ho chiesto di attendere almeno quindici giorni, perché la mia famiglia non sapeva ancora nulla. Dovevo andare ad Ascoli. Non la vedevo dal 15 agosto del 2020”.

La salita

I giorni corrono, il tempo è poco e le cose da fare sono molte. Tra queste, guardare negli occhi chi si ama e metterlo al corrente di una dura realtà. “Per proteggerci dal Covid, non andavo ad Ascoli da quasi un anno. Sono sincero, ho ricevuto anche diversi vaffanculo per questo. Ho prima parlato con mio fratello per telefono e, dopo avergli spiegato la situazione, gli ho detto di organizzare un pranzo dalla mamma. Quel giorno, quando sono arrivato, ci siamo messi a tavola e lei si era già insospettita. Io, davanti alla mia compagna, mio fratello Giancarlo, la moglie Manila, mia mamma Diana e le mie due nipoti Giulia di 22 anni e Marianna che ne ha 12, ho detto quello che stava succedendo.

Tutto il tavolo è scoppiato in lacrime. Qualcuno si e disperato in una prima fase, ma sono stato molto ferreo ed ho spiegato che il tumore era benigno. Il giorno dopo, quando io e Francesca ripartiamo, mamma viene con noi per starmi vicino ed aiutarmi nel pre e post intervento. Avevo capito che voleva essere presente e l’aiuto ovviamente era indispensabile. Da lì, inizia l’attesa del 21 giugno, giorno scelto per l’operazione. Dovevano ricoverarmi la domenica, operare il lunedì e rispedirmi a casa il sabato seguente: secondo il professor Carletti, meno tempo passa tra comunicazione e intervento e meglio è. Una vera macchina da guerra. L’attesa è stata difficilissima sotto l’aspetto psicologico perché i sintomi iniziavano ad appesantirsi. Il venerdì, però, il medico mi scrive informandomi che, a causa della carenza di sangue in Toscana, gli interventi chirurgici sono stati sospesi e che quindi dovevamo rinviare: la nuova data era il 28 giugno”.

Per chi sta scrivendo queste parole, è molto chiaro cosa si prova nel limbo dell’attesa. La paura mista all’impellenza di mettere un punto, la voglia di combattere ma anche il timore che possa succedere qualcosa da un momento all’altro. E per Giuseppe, quella settimana è stata ancora più lunga. “Prendevo già farmaci per tenere sotto controllo i sintomi, ma mi facevano dormire poco. Io sono un grande patito di Vasco Rossi, compravo i suoi album quando lo ascoltavano quattro gatti. È la colonna sonora della mia vita. Ogni canzone ha segnato un pezzo della mia esistenza. Una sera, per cercare di dormire, ho provato a canticchiare Albachiara ma non ricordavo una parola. Poi ho pensato alla frase che ho tatuata sul braccio, tratta da Sally: ‘la vita è un brivido che vola via’, ma non ricordavo nemmeno quella. Mi sono seduto sul letto ed ho pianto come un bambino di cinque anni, dicendo a me stesso: ‘ma se non ricordi Vasco, a che servi?’ Ho continuato con amnesie e buchi, ma sono andato avanti”.

La guerra


In pochi sapevano. L’azienda, la famiglia, un paio di amici. “Mentre andavo in clinica, ho chiamato alcuni compagni di infanzia ed il tema era sempre lo stesso: sto andando ad operarmi per un tumore alla testa. Ai miei cari, avevo dato disposizioni, se le cose fossero andate male. Vado e vengo ricoverato: un’infermiera mi taglia capelli a zero, telefonata alla mia famiglia, poi la notte senza dormire un minuto. La mattina entro in sala operatoria e dormo 7 ore di fila. Quando mi sveglio in terapia intensiva, trovo al mio fianco proprio lui, il professor Carletti che mi ha subito spiegato che era andata bene. Finiamo addirittura a parlare di sanità e politica in terapia intensiva, insieme a lui, agli infermieri e agli altri medici. Il tumore non c’era più. Quando sono stato trasferito in reparto l’alta carica dei farmaci, la morfina, lo stress accumulato nei giorni precedenti e anche lo spazio lasciato dal tumore che adesso doveva essere occupato nuovamente dal cervello, mi hanno destabilizzato. Sono iniziate le visioni e miraggi, paura e realtà falsata. Di nuovo Carletti è stato lungimirante e fondamentale. Insieme alla caposala Veronica Scarpelli, ha portato in stanza Francesca, la mia compagna: in pratica l’ha ricoverata. Lei è rimasta lì con me, chiusa nella camera, per ben quattro giorni. Piano piano, sono migliorato. Non sono uscito il sabato come previsto, ma il lunedì ero a casa”.

La rinascita di un solestante

Un passo indietro: prima di partire, Giuseppe mette in borsa il fazzoletto giallo-blu del sestiere Porta Solestà, uno dei rioni di Ascoli che, ogni anno, si affrontano nella quintana. “Ad Ascoli i sestieri stanno crescendo molto dal punto di vista sociale. Noi siamo un rione molto grande e viviamo l’appartenenza e la quintana con molta intensità. I sestieranti, tra l’altro, sono innamoratissimi del Palio di Siena e per una questione di colori, sono particolarmente affezionati alla Tartuca. Ci sono tanti ascolani che si sono avvicinati alle contrade, qualcuno si è legato talmente tanto da battezzarsi. Palio e quintana ovviamente, sono incomparabili: noi guardiamo Siena con ammirazione e rispetto, prendendo ispirazione sopratutto dal punto di vista sociale”. Giuseppe conosce bene il Palio, lo ha raccontato, vissuto, ha provato a capirlo. E forse è proprio quella passione che prova per il suo sestiere che lo ha spronato così tanto. Il giallo ed il blu, un fazzoletto in borsa e… “Arrivato in clinica, non ci potevo credere. Era tutta gialla e blu! Ho tenuto sempre il fazzoletto con me. Sono uscito il 5 luglio e la sera del 10 si correva la quintana: anche da noi viene dipinto un Palio e in quello di quest’anno è stata rappresentata una fenice, simbolo di rinascita. Porta Solestà, il mio sestiere, corre e vince. Ero felicissimo, euforico. A un certo punto è suonato il telefono: erano loro, i miei amici d’infanzia che mi hanno cantato i cori della vittoria. Un momento che mi ha caricato tantissimo e fatto scoppiare di nuovo in lacrime”.

Il filo di Arianna

Con Giuseppe, ci siamo chiesti se esiste un filo conduttore, un filo di Arianna, appunto, che abbia accompagnato questo suo lungo percorso fatto di incontri, di sofferenze ma anche di coraggio e sorprese. Siamo partiti dalla sua professione che lo ha portato a girare tanto e a conoscere Siena, dove è iniziato tutto e dove vive, in provincia. “Ho fatto 17 traslochi nella mia vita, di sicuro c’è un filo di Arianna. In questo percorso dovuto al tumore, ho incontrato tutta gente che per certi versi si somiglia e somiglia a me: che parla in faccia, diretta, disponibile, buona. Tanti di questi hanno la lacrima facile ma io per primo. E se non avessi accettato Siena, nel 2000? Mi sarei precluso un mondo di rispetto e ammirazione. Il professor Carletti, inoltre, si è specializzato in pronto soccorso proprio all’università di Siena. E poi, gli eventi che hanno segnato la mia vita. Ho trascorso il quattro luglio in ospedale, per me è un giorno significativo. Penso a Silvia Trabalzini. Lavorava all’ufficio stampa dell’università di Siena e con lei avevo una grandissima amicizia. Da Siena, poi, sono stato trasferito a Grosseto: lei voleva fare la giornalista e quando ci è servita una sostituzione estiva, ho pensato subito a lei, bravissima e preparatissima. Rimase lì per tre o quattro mesi, dopo fece un’esperienza a Lucca per poi tornare a Grosseto nell’ufficio stampa del comune. Ci sentivamo spesso in amicizia e ovviamente per aspetti lavorativi. Sapevo che aveva un grave problema al cuore ed era destinata al trapianto. Un giorno doveva mandarmi delle foto di un evento, l’ho chiamata più volte al telefono ma non riuscivo a contattarla. Alla fine, mi ha risposto dall’elicottero che la stava portando a Pavia per il trapianto: avevano trovato un cuore. La sera mi arrivò un messaggio ‘sto entrando in sala operatoria, tra poco nuova vita‘. Silvia, quel quattro luglio, non è mai uscita dalla sala operatoria. Per me è sempre rimasta un grande affetto che porto nel cuore tutt’ora. Il quattro luglio è nata anche mia nipote, Giulia. E poi… Poi è arrivata la mia compagna, la donna della mia vita. Si chiama Francesca, lo stesso nome di mio padre che non c’è più. Il suo cognome? Trabalzini”.

Arianna Falchi
Penna e cuore, dal 1991. Credo nella potenza delle parole, unica arma di cui non potrei mai fare a meno. Finisco a scrivere sui giornali un po' per caso, ma è quella casualità che alla fine diventa 'casa' e ho finito per arredarla a mio gusto. Sono esattamente dove vorrei essere. Ovvero, ovunque ci sia qualcuno disposto a leggermi.

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