Storie di un calcio piccolo: la rubrica settimanale di Riccardo Lorenzetti

C’è sempre un prete, in mezzo, in quegli anni. Tra l’oleandro e il baobab di una celebre canzone, che rimanda al caldo, al solleone e all’Africa, da cercare nel giardino di casa. E c’era, il prete, perché dall’altra parte erano tutti impegnati nella rivoluzione: a discutere di lotta di classe, di contraddizioni del capitalismo ma anche di cose più concrete: come gli aumenti dei salari, la cassa mutua e il sabato finalmente non lavorativo. Di pallone, no.

Perché il pallone era una delle tante sovrastrutture borghesi messe lì per annacquare la tensione sociale, e distogliere il popolo dalla sua missione più autentica.

I preti, invece, pensavano all’anima, ma anche al corpo. Ed ecco perché, vicino alla chiesa, costruivano quasi sempre un campo di pallone. Dove si giocava ma solo dopo aver servito messa e ascoltato il catechismo, con il corredo finale di qualche pater-ave-gloria se, nell’impeto della partita, era scappata qualche parolaccia di troppo. Fu proprio grazie ai preti se nacquero, in quegli anni, le società sportive più illustri, i campisportivi più belli e le manifestazioni più importanti.

Come la Coppa Brenna, di Don Firmando Bari. Brenna. 175 abitanti, a dar retta a Wikipedia. Uno di quei gioiellini incastonati nella Val di Merse: come Torri, dove il tempo si è fermato. Come Stigliano, che è un piccolo incanto: o come Orgia, dove scappa sempre il sorrisetto malizioso. Quel lembo di terra che una volta era la porta d’ingresso per la Maremma (quasi sempre amara) e lo spettrale Ponte della Pia a fare da ideale frontiera tra Siena, che è la città del sogno, e l’incubo di quelle terre desolate. E infine il nome: Brenna. Che ci riporta di peso proprio a Siena, e a quell’affettuoso sostantivo da affibbiare ai cavalli meno dotati. Che tutto potranno fare in vita loro, tranne vincere il Palio. Ma è proprio qui, nel 1964, che nasce quel leggendario torneo di calcio. E sarà una novità entusiasmante: una specie di Champions League “ante-litteram” capace di far delirare, ad ogni estate, tutti gli sportivi della Val di Merse, nel lembo nord-occidentale della Provincia di Siena.

Anni di grandi trasformazioni, quelli. Dove tramonta il mondo contadino e si fa largo una nuova idea di società, dove si imparano ogni giorno tante cose nuove: come lo sport, una parola nuovissima che un mezzadro, o un bracciante, nella sua derelitta vita, non poteva nemmeno permettersi di sognare. E furono proprio i preti i più scaltri a intuirne l’importanza: vedendo, nello sport, il mezzo più immediato per un riscatto sociale ma anche per preservare l’orgoglio e l’identità dei paesi più piccoli, che l’esodo verso la città stava progressivamente svuotando. Fu intorno alle parrocchie che si creò l’energia necessaria per mettere in piedi squadre di calcio, e tutte quelle sagre paesane (camuffate da giostre, palii, bravii o quintane) che resistono ancora oggi. Raccogliendo, alla fine, i classici due piccioni con una fava: perché i preti non si limitarono ad offrire un indirizzo alla gioventù, ma riuscirono anche a tenerla abbastanza lontana dall’influenza rossa del Pci, che in quegli anni avanzava impetuosamente.

Era il tempo dei Don Firmando, per l’appunto: grande organizzatore ma soprattutto personaggio concreto: un uomo che passava senza troppi problemi dall’ostensorio alla betoniera, e si trovava a meraviglia sia nella sacrestia che nel cantiere edile. “La messa è finita andate in pace”, diceva ai fedeli. Poi strizzava l’occhio: “Magari, andate anche al camposportivo, che alle tre si gioca contro il Pievescola, e c’è ancora da marcare le righe.” La “Coppa Brenna” nasce nel suo studio parrocchiale.

Per prima cosa si inventa la formula. Due gironi all’italiana con partite di andata e ritorno, esattamente come l’attuale Champions League: poi le prime due classificate che si scontrano in semifinale ed infine la finalissima, da disputare rigorosamente nel campetto di Brenna, che diventa uno Wembley in miniatura ed il punto di riferimento calcistico dell’intera Val di Merse. Così in anticipo sui tempi, quel prete, che quando (nel 2005) si organizza un serioso dibattito sul futuro del calcio dilettanti, dove si parla di riforma dei campionati, di nuove formule e di “conference”, a un certo punto si alza il povero Piero Ruffoli, che sorride e scuote la testa: “Bella e innovativa, questa vostra idea di calcio…”- dice l’anziano giornalista- “… Ma è la copia sputata della Coppa Brenna, di Don Firmando Bari.”

E siccome Don Firmando ci sa fare anche nel marketing, costruisce subito il suo colpo ad effetto: ed ingaggia, grazie ai buoni uffici dell’Arcivescovo, il grande Antonio Monguzzi, che nel 1964 è la bandiera dell’Ac Siena, ed ha l’effetto prorompente di un Cristiano Ronaldo. Monguzzi è un difensore fenomenale: gli fanno giocare (abbastanza svogliatamente) un paio di partite con la maglia biancoceleste del Brenna, che però bastano e avanzano per spargere la voce, e lanciare in orbita la neonata manifestazione. Che viene guardata con un certo sussiego da chi la squadra di calcio ce l’ha già, come Buonconvento o Monteroni, ma diventa una calamita irresistibile per tutti gli altri. Che attività sportiva non ne fanno, e che prendono a finanziarsi con il metodo antico della “questua”, casa per casa: per mettere in piedi una squadra che, in ragione della generosità dei paesani, risulterà più o meno competitiva.

Tutto fa brodo, insomma, pur di vincere la mitica Coppa Brenna, che diventa, ad ogni edizione, sempre più importante: si ingaggiano calciatori illustri da Grosseto, da Pisa e da Firenze e diventano proverbiali le favolose trentamila lire che Luciano Mazzei, grande mezzala del Siena, si mette in tasca ogni volta che indossa la maglia del Rosia. Il Rosia è uno dei Club più importanti del calcio senese, ma non va dimenticato che la sua leggenda sportiva comincia proprio nei pomeriggi estivi, e polverosi, della Coppa Brenna; e così quella dei dirimpettai di San Rocco a Pilli, con i quali si troveranno ad ingaggiare una rivalità che arriverà fino alle soglie dell’eccellenza, che è la categoria più illustri dell’intero calcio dilettanti.

La rossa, sanguigna Rosia contro la “bianca”, borghese San Rocco, in uno scontro che travalica il semplice pallone e fa rivivere la popolarissima saga di Peppone e Don Camillo, che per la gente dell’epoca era una specie di pane quotidiano. In un derby particolarmente acceso, il Rosia passa in vantaggio, causando la morte per infarto (!) di un tifoso sarrocchino: arrivano medici e ambulanze ma la Coppa Brenna è più forte di tutto, e la partita prosegue, pur dopo una lunga interruzione… La vincerà il San Rocco, per due a uno, ribaltando il risultato nel finale. In porta del Rosia gioca Mauro Bettarini, che è anche un gran bel ragazzo, e diventa l’idolo incontrastato delle ragazzine che prendono a frequentare con insistenza il campo sportivo.

Dove, però, non sono contemplate le docce: e allora il bel Mauro inserisce nel contratto la clausola che lo autorizza, finita la partita, a servirsi del bellissimo bagno del Presidente, che abita lì vicino. Gli altri calciatori, che si arrangino con le tinozze collocate fuori dagli spogliatoi. Non esistono nemmeno gli alberghi, e può succedere che la gente del paese si offra per ospitare, nella propria abitazione, i calciatori che vengono da fuori. Dino Biagi, che gioca nell’Empoli, si trova così bene che finisce per trattenersi a Rosia anche tre giorni di fila, portandosi dietro moglie e figli.

Nel ’69 il San Rocco ingaggia Ezio Vendrame, che di lì a poco debutterà in serie A con il Lanerossi Vicenza: ma il giorno della partita è un caldo infernale, e il campione preferisce svignarsela al mare, lasciando perdere le sue tracce. L’altra grande della Coppa Brenna è il Chiusdino, i cui calciatori (i “cinghialotti”) hanno fama di irriducibili, soprattutto quando si trovano il San Rocco e il Rosia. Li guida Renzo Bralia, il leggendario “Starna”, classe 1948, che è uno dei pochissimi, all’epoca, a saper calciare con entrambi i piedi. E’ lui che suona la carica in una memorabile semifinale con il Rosia, che a fine primo tempo conduce tranquillamente per due a zero. E gioca così bene che i dirigenti biancorossi, sicuri dell’immancabile trionfo, hanno la grande idea di saccheggiare tutto lo spumante disponibile nella Cooperativa alimentari del paese.

Che poi i Chiusdinesi provvederanno a ricomprare (a prezzo più basso) quando il grande “Starna”, al 90’, segnerà il gol del 3-2 che sancisce la “remuntada”. Un altro derby acceso è quello che mette di fronte il sorbo e il corbezzolo (o baciullo): Casciano contro Vescovado, quando tra paesi ci si chiamava anche per soprannome, ed era un mondo pieno di “nebbiaioli”, “granocchiai” e “beccamorti”. I Vescovini avrebbero giustappunto adocchiato, in un negozio di Siena, una splendida maglia arancione, ma vengono anticipati da quelli di Ville di Corsano, che sono più risoluti, e arrivano prima. A Vescovado organizzano una spedizione punitiva, per vendicare il dispetto, e ci vogliono tutti i buoni uffici di Don Mauro Taccetti (e del sindaco Morviducci) per scongiurare l’incidente diplomatico: intanto si ripiega su una maglia giallonera, che è meno suggestiva, ma è l’unica disponibile. E che rimarrà, da allora, il colore sociale di quel Club. Sempre parlando di preti, a Casciano c’è Don Lorenzo Bozzi, che gioca con gli occhiali ed è fortissimo di testa: indossa la maglia numero undici e trascina i suoi biancorossi a giocarsi due finali, entrambe perse.

A San Lorenzo a Merse detta legge Don Franco, che calcia punizioni magistrali e sforna assist deliziosi. E si incacchia di brutto se in campo, qualcuno, indulge a qualche moccolo di troppo. La Coppa Brenna è un caleidoscopio che mette in vetrina un tale campionario di personaggi che, a distanza di anni, fanno quasi tenerezza. C’è il portiere che non regge l’emozione, e allora nasconde dietro il palo una bottiglia di Martini, arrivando ubriaco fradicio al novantesimo; c’è l’allenatore Ferrotti, che ha avuto una vita avventurosa, ed è stato persino in India, ed in panchina è una specie di istituzione, come il Barone Liedholm. E poi ci sono quelli (e non sono pochi) che perdono facilmente la testa e finiscono per picchiare l’arbitro, beccandosi fior di squalifiche a vita, perché le zuffe sono all’ordine del giorno, in quegli anni di grandi, e feroci campanili. “Su dieci partite che organizzavamo, solo due o tre riuscivano ad arrivare al novantesimo…

E non c’era amichevole che non contemplasse almeno dieci espulsioni” racconta Moreno Cigni, che una Coppa Brenna l’ha anche vinta, e non era nemmeno maggiorenne. Personaggi, ma anche tante storie: quella della Pieve, per esempio… I giallorossi di Pievescola, che mettono in campo splendide squadre, ma non vincono mai: e così il Sovicille, che è arancione in onore della grande Olanda, ed arriva ad ingaggiare il grande Giorgio Frosini, che gioca nel Siena. Senza tuttavia superare lo storico inferiority-complex con le frazioni (Rosia e San Rocco) che, infatti, vincono regolarmente.

E infine il piccolo Brenna, che una volta riesce persino a vincere la Coppa: grazie ad un miracolo che Don Firmando attribuiva all’intercessione di San Michele Arcangelo, patrono del paesello, ed altri all’escamotage messo in atto dal battitore libero (e capitano della squadra) Carlo Signorelli. Succede in semifinale, contro la Casolese, quando bisogna difendere il risicatissimo vantaggio dalla pressione avversaria che si è fatta insostenibile, e che mette alla frusta persino il fenomenale Terzuoli, che arriva da Torrenieri ed è il miglior portiere dell’epoca. Signorelli, invece, è calciatore esperto e soprattutto scaltro, così prende a scaraventare il più lontano possibile tutti i palloni che capitano nella sua area di rigore. La partita viene quindi sospesa un quarto d’ora per consentirne il recupero, nel bosco e nei campi circostanti, ma quando si riprende a giocare la Casolese ha perduto tutta la sua forza d’urto.

E il Brenna vince quella rocambolesca partita. Alla fine, volano parole grosse. Don Firmando alza gli occhi al cielo, allarga le braccia, e intanto si frega le mani… La sua invenzione calcistica gli frutta un bel po’ di quattrini, che destina ai lavori più urgenti della parrocchia. Poi, come spesso succede, anche la magica Coppa Brenna perde la sua spinta propulsiva. Soprattutto, perde la sua esclusività, perché gli anni ottanta sono arrivati, e i tornei estivi prendono a moltiplicarsi: si gioca dappertutto, ormai… A Casole, a Pievescola, a Pari, a Torrenieri. A Sovicille, dove vengono montati i primi riflettori per le partite in notturna.

L’ultima, semiclandestina, edizione della Coppa Brenna si disputerà davanti a pochi intimi, nel 1985. Poi, qualche anno dopo, scomparirà anche quel piccolo camposportivo-monumento, dove, ad ogni estate, si davano battaglia i calciatori più bravi degli anni sessanta e settanta. Adesso, in quel prato, scorrazzano i cani di un organizzatissimo centro cinofilo, che da diverso tempo vi ha impiantato il suo quartier generale. Rimane una porta da calcio. Laggiù, quasi isolata da tutto il resto: che nessuno ha voluto smontare, e che sembra voler raccontare una storia lontana che parla di imprese mirabolanti e di battaglie ferocissime, in un campo di pallone. Di goleador esotici, di portieri alticci e di preti che ci avevano visto lungo. Come il fantasmagorico Don Firmando Bari, l’inventore della Coppa Brenna. Che se ne andrà il 28 settembre del 2000.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui